Le virtù confluenti nello zelo missionario

Altre virtù caratteristiche dello spirito vincenziano, che costituiscono altrettante arcate dell’impianto spirituale di san Vincenzo, sono la semplicità, la mitezza e la mortificazione. Esse, come anche l’umiltà e la povertà, non sono fine a se stesse, ma sono funzionali a realizzare nel prete della Missione un’umanità duttile e ben orientata allo scopo della sua vocazione. I missionari, più di tutti gli altri sacerdoti, devono esser pieni dello spirito di compassione, essendo obbligati, per il loro stato e la loro vocazione, a servire i più miserabili, i più abbandonati e i più oppressi dalle miserie corporali e spirituali. Prima di tutto, devono sentirsi commossi al vivo e afflitti in cuor loro per le miserie del prossimo. In secondo luogo, questa pena e compassione deve apparire esternamente sul loro volto, ad esempio di Nostro Signore che pianse sulla città di Gerusalemme, minacciata da tante calamità. In terzo luogo, bisogna usare parole compassionevoli che dimostrino al prossimo che sentiamo come nostre le sue gioie e le sue pene. Infine bisogna soccorrerlo e assisterlo, per quanto si può, nelle sue necessità e miserie, cercando di liberarlo in tutto o in parte, perché la mano deve essere, per quanto è possibile, conforme al cuore.

1. San Vincenzo chiamava la semplicità “il mio Vangelo”, tanto gli stava a cuore. Essa, prima di tutto, unifica il missionario con Dio, portandolo a cercare Lui solo nel suo ministero. La semplicità consiste propriamente nel fare tutte le cose per amore di Dio e non mirare ad altro, nelle proprie azioni, se non alla sua gloria. … Bisogna bandire ogni doppiezza per mirare solo a Dio. Ora, fratelli, se vi sono persone al mondo che devono avere questa virtù, sono i missionari, perché tutta la nostra vita si svolge nel compiere atti di carità o verso Dio o verso il prossimo… La doppiezza è la peste del missionario, gli uccide lo spirito, è il veleno della Missione. Un missionario semplificato nella sua interiorità è anche un missionario che si comporta semplicemente, alla buona, sta con i poveri in modo che non solo essi lo comprendono, ma soprattutto si sentono compresi. Il suo atteggiamento trasparente, senza calcolo, crea un luogo comune ove è possibile dialogare in verità. I semplici, che nel loro candore non usano sottigliezze né imbrogli, che vanno alla buona e parlano sinceramente in modo che quello che dicono corrisponde a quello che hanno in cuore, costoro sono amati da tutti. A corte, quando vi sono persone così, godono la stima di tutti. In una compagnia, ove si viva la regola, ciascuno ha verso di loro un affetto particolare, perché anche quelli che non agiscono candidamente sanno tuttavia apprezzare la semplicità che vedono negli altri. La semplicità di cuore si traduce in una semplicità di parole e di azioni. E’ questo l’aspetto più esterno della semplicità, ma non il meno importante, poiché ne è come lo splendore visibile. Su quest’aspetto san Vincenzo si soffermava in modo particolare. Vivendo in un ambiente in cui il costume tendeva verso la mera rappresentazione di sé ed ove la teatralità, la ritualità ed i modi cortigiani, rappresentavano la normalità delle persone altolocate, san Vincenzo percepiva che la spettacolarizzazione della vita rappresenta una minaccia per l’anima stessa. La semplicità di parola consiste nel dire le cose come le abbiamo in cuore, ..: senza star lì a cavillare su questo o su quello, parlando con candore e alla buona con la pura intenzione di piacere a Dio. Non è tuttavia semplicità manifestare ogni sorta di pensieri, poiché questa virtù va unita alla discrezione e non è mai opposta alla prudenza, la quale porta a discernere quello che è bene dire da quello che è conveniente tacere. Bisogna dunque che la lingua esprima le cose come sono dentro di noi; altrimenti è preferibile tacere.

2. La semplicità si abbina con la mitezza d’animo, altra virtù caratteristica dello spirito vincenziano. La mansuetudine esercita il dominio sui movimenti iracondi e focosi della natura umana. Essa impedisce al missionario di essere vittima delle reazioni istintive, lo sostiene nel sopportare i falsi giudizi e, persino, le ingiurie senza irritarsi, infine lo aiuta a perdonare chi gli fa del male ed a guardarlo con eguale stima e bontà. L’amabilità è la virtù che permette di relazionarsi spontaneamente con tutti. Un uomo semplice ed umile è mite; e porta impresso negli occhi e nel sorriso una capacità di simpatìa e di comprensione che attira. E questo non perché sia un carattere particolarmente felice, ma perché ha accettato dentro di sé la sfida di un’esistenza semplice ed umile. Coloro che hanno una fisionomia sorridente e piacevole accontentano tutti, avendo Dio concesso loro la grazia di avere un modo di avvicinare cordiale, dolce e amabile, con il quale sembrano offrire il loro cuore e chiedervi il vostro; mentre altri, rozzi come me, si presentano con un’aria arcigna, burbera o scontrosa, del tutto contraria alla mansuetudine. Pertanto, fratelli, un vero missionario farà bene ad imitare i primi e comportarsi in modo da offrire benevolenza e fiducia a tutti quelli che l’avvicinano… Siccome noi dobbiamo occuparci dei poveri campagnoli, degli ordinandi, degli esercitanti e di ogni sorta di persone, non riusciamo a produrre buoni frutti se siamo come terra arida sulla quale germogliano solo cardi. Occorre un po’ di buona grazia e un volto amabile per non impaurire nessuno. La mitezza lascia trasparire la letizia che il Signore dona agli umili ed ai semplici e rivela che una creatura non è dominata dagli umori del sentimento, ma trova nell’abbandono fiducioso in Dio il rifugio nelle contraddizioni, per cui essa diventa trasparenza di Dio nella sua umanità: Osservate le sante disposizioni nelle quali [il cristiano sottomesso alla volontà di Dio] trascorre la sua vita, e le benedizioni che accompagnano tutto quello che fa. Dio gli basta e Dio lo guida in tutto e dappertutto. Dio lo sostiene con la sua potenza, e questi, abbandonandosi a sua volta con intera sottomissione alla guida divina, lo vedrete domani, dopo domani, tutta la settimana, tutto l’anno e, infine, tutta la vita, lieto e sereno, nel desiderio di tendere continuamente a Dio, pronto a spargere nel prossimo le soavi e salutari operazioni dello spirito di cui è animato.

3. Dominare il proprio animo ed i sentimenti che vi si scatenano nelle contrarietà non è spontaneo, esige un’attenzione interiore ed una vigilanza che sono riassumibili nella virtù della mortificazione. Il termine mortificazione, desueto nei nostri tempi, esprime di fatto una necessità di tutti i tempi, e cioè quella di correggere l’impulsività. San Vincenzo tuttavia dà a questa virtù un orientamento particolare, la collega all’ordine degli affetti e alla missionarietà. Siccome un uomo vive dell’affetto che maggiormente lo sostiene, Gesù chiede a chi vuol mettersi alla sua scuola di “rinnegare se stesso”, non per mutilare il suo affetto, ma per tenerlo orientato nel senso dell’amore e sottrarlo all’egoismo. E la via per ottenere questa educazione è “la preferenza verso di Lui”, anteponendola a tutti gli affetti costitutivi della persona umana, e cioè il padre, la madre, la moglie, i fratelli e le sorelle. Se Gesù chiede al discepolo di porlo al centro dei suoi affetti, è per mostrare, in questa gerarchia, l’amore che illumina ogni affetto. Al missionario pertanto è chiesto di collocare nella giusta gerarchia i suoi affetti, non di sopprimerli. Ed essi si posizionano nel giusto ordine quando rispettano l’amore per Cristo che li fonda tutti. Che vuol dunque dire: rinunziare a se stesso? La regola dice che è rinunziare al proprio giudizio, alla propria volontà, ai propri sensi e ai propri parenti. Che vita, fratelli, rinunziare a tutto se stesso per amor di Dio, adattare i propri giudizi a quelli del prossimo, sottostare per virtù a chi si deve, sottomettere ogni pensiero al giudizio che Dio ha della realtà! Ma alla rinuncia, insita nella virtù della mortificazione, s’oppone sempre un’obiezione, che cioè essa sia contraria alla positività della creazione. A risolvere questa apparente contraddizione è la via dell’amore che in Gesù crocifisso trova la sua definitiva chiarificazione. La rinuncia cristiana è sì un distacco, ma per accedere a qualcosa di più grande. Essa esprime il necessario cammino di svuotamento del proprio “io carnale” affinché nasca e cresca l’io modellato su Cristo. La mortificazione dunque non è un valore per sé; piuttosto appare come il necessario prezzo da pagare al cambiamento della propria vita per realizzare la vita comune e la missione. L’intuizione di san Vincenzo è illuminante quando afferma che la mortificazione è un mezzo, non un fine. Da ricercare, dunque, è l’ideale di un’antropologia rinnovata, che permette di realizzare la fraternità in comunità e di accettare tutte le fatiche richieste dall’evangelizzazione die poveri nelle missioni. E’ in questa visione che la mortificazione trova la sua giusta collocazione. Se non siamo animati dallo spirito di mortificazione, come vivremo insieme? Non ci sarà sempre da ridire? Non c’è sempre qualcosa che ci urta nelle diverse circostanze in cui ci troviamo? Senza la mortificazione ci si troverà in un continuo puntiglio. Questa virtù è tanto necessaria, che non potremo vivere, lo ripeto, non potremo vivere gli uni accanto agli altri, se i nostri sensi interni ed esterni non sono mortificati; e non solo è necessaria tra noi, ma anche in mezzo al popolo, dove c’è tanto da patire. Quando andiamo in missione, non sappiamo dove alloggeremo né che cosa succederà. Accadono cose tutte diverse da quelle che avevamo previsto, perché la Provvidenza rovescia sovente i nostri progetti. Chi non vede dunque che la mortificazione è inseparabile da un missionario, non soltanto nelle relazioni con il povero popolo, ma anche con gli esercitanti, ordinandi, forzati e schiavi? Se non siamo mortificati, come sopporteremo quanto c’è da patire nelle varie attività?

4. Semplicità, mitezza e mortificazione hanno il potere di rendere un missionario libero e disponibile per la missione. La virtù-sintesi che riassume tutte le disposizioni d’animo del missionario è lo zelo per la salvezza delle anime. E la loro salvezza consiste nel portarle a fare l’esperienza della carità. Lo zelo, secondo san Vincenzo, è il vertice della costruzione spirituale di un missionario, poiché segnala che l’amore di Dio traboccante nell’amore del prossimo è come una fiamma che brucia ogni impurità: Lo zelo … consiste nel puro desiderio di rendersi graditi a Dio e utili al prossimo: zelo per estendere il regno di Dio sulla terra e zelo per procurare la salute del prossimo. C’è qualcosa di più perfetto al mondo? Se l’amor di Dio è un fuoco, lo zelo ne è la fiamma; se l’amore è un sole, lo zelo ne è un raggio. Lo zelo è quanto di più puro c’è nell’amor di Dio. Ora, fratelli, come avremo lo spirito di semplicità, di umiltà e di mitezza, se non abbiamo la mortificazione che ci fa trovare tutto buono? E come avremo la mortificazione senza lo zelo, che ci fa passare sopra ad ogni difficoltà, non solo in forza di ragionamenti, ma con la forza della grazia, che ci fa provare persino piacere nel soffrire, sì piacere? Miserabile che sono, lo comprendo e non lo faccio. Nell’architettura spirituale dell’esperienza di san Vincenzo lo zelo rappresenta dunque la chiave di volta, poiché esso è il sacrario entro cui è custodita la grazia propria della vocazione. Lo zelo esprime il senso stesso dell’esistenza nella Compagnia: non esiste altro motivo per essere nella Missione se non per trasmettere alle anime l’amore di Dio attraverso l’amore del prossimo: E’ Dio che ha fatto sorgere questa piccola Compagnia, come tutte le altre, per amarlo e fare la sua volontà. Tutte, infatti, tendono ad amarlo, ma l’amano in modo diverso: i certosini con la solitudine, i cappuccini con la povertà, altri cantando le sue lodi; e noi, fratelli, attraverso l’amore. Noi dobbiamo mostrarlo portando il popolo ad amare Dio e il prossimo, ad amare il prossimo per Dio e Dio per il prossimo. Noi siamo scelti da Dio come strumenti della sua immensa e paterna carità, la quale vuole stabilirsi e dilatarsi nelle anime… La nostra vocazione è dunque di andare, non in una parrocchia e neppure soltanto in una diocesi, ma per tutta la terra. E a far che? Ad infiammare il cuore degli uomini, facendo quello che fece il Figlio di Dio, lui che è venuto a portare il fuoco nel mondo per infiammarlo del suo amore… Non mi basta amare Dio, se il mio prossimo non lo ama. Devo amare il mio prossimo come immagine di Dio e oggetto del suo amore; e far di tutto perché a loro volta gli uomini amino il loro Creatore che li conosce e li considera come suoi fratelli, che li ha salvati; e procurare che, con mutua carità, si amino tra loro per amor di Dio, il quale li ha tanto amati da consegnare per essi il proprio Figlio alla morte. Di qui il piglio ironico di san Vincenzo nel contrastare tutte le forme con cui si deforma la tensione missionaria da parte di alcuni missionari pigri e vanitosi, che hanno scambiato l’attività missionaria come uno strumento di autoaffermazione: Si tratta d’andare in missione in un villaggio dove non ci sono che poveri contadini e donnicciole? Il signorino si guarda bene dall’andarvi. Se immagina che ne sarà pregato, fa provvista di scuse. Di queste non è mai a corto, e un povero superiore è obbligato ad ascoltarle soffrendo. Che potrebbe fare altrimenti? Ma se c’è una missione di un certo rilievo, dove ci sia di che soddisfare la vanità, questa sì che fa per lui. Ne va a caccia; la chiede, fa tutto quello che può direttamente o indirettamente per esservi mandato. Tra sé ragiona: vi sarà questi e quest’altro che mi sentiranno predicare; vi saranno anche i tali ed i tali; ai miei sermoni interverranno molte persone di merito e ragguardevoli, il gran mondo. Io farò meraviglie. Si parlerà poi di me e si dirà: “E’ un buon missionario, un ottimo predicatore, un uomo dabbene”. … E’ questo un missionario? E’ un diavolo, non un missionario. Il suo spirito è lo spirito del mondo. Egli è già nel mondo con il cuore e con l’affetto, solo la carcassa del suo corpo è nella Missione. Cercare i propri comodi, procurarsi piaceri, vivere nell’abbondanza, farsi stimare, ecco lo spirito del mondo, ecco quello che egli desidera: ecco il suo spirito. La passione per l’annuncio di Cristo è messo in movimento soltanto da un sincero attaccamento a Lui. Ma quest’affetto procede man mano che Lo si annuncia; altrimenti entra in zona d’ombra e, un poco alla volta, diventa insensibile al pensiero e al cuore. Infatti, quello che non si difende inevitabilmente lo si perde. Più si è affezionati a Cristo, e più si è portati a testimoniarlo; e più lo si testimonia, più ci si affeziona: è il circolo virtuoso dell’ascesi evangelica e cristiana. Per questo san Vincenzo afferma che l’insensibilità di fronte alle cose di Dio e alla salvezza del prossimo è una massima contraria al Vangelo, che va a ledere lo spirito della Compagnia: Fratelli, non è forse vero che insensibilmente cerchiamo noi stessi, ci lasciamo blandire dall’amor proprio, non contrastiamo l’inclinazione della natura, la quale non pensa ad altro che a procurarsi soddisfazioni? …. Come! Abbiamo lasciato tutto per Dio: perché allora ricerchiamo noi stessi? … Cerchiamo di avere lo zelo di edificare il popolo, mostrandogli come si debba tenere in considerazione la parola di Dio, trattandola noi stessi come si deve. Credetemi, il popolo sta con rispetto in chiesa e tiene in giusto conto la parola di Dio, se vede che anche noi la stimiamo. Fratelli, se fossimo fedeli nel celebrare con cura la liturgia e le preghiere, Dio ci donerebbe quel fervore, che ci animerebbe vicendevolmente nella pietà, facendoci gustare le cerimonie; mentre, al contrario, senza questa sensibilità saremo di cattiva edificazione al prossimo… Ah! Fratelli, infervoriamoci con questo spirito, perché se esso penetra in noi saremo preservati dall’insensibilità. L’ambiente in cui la vita evangelica del missionario, caratterizzata dalle virtù del suo stato, può essere tenuta viva ed operosa è la comunità. Ad essa san Vincenzo ha riservato un ricco insegnamento, perché è l’alveo che alimenta la ricchezza del carisma. La comunità, coronamento e sostegno dell’esperienza missionaria Troppo ingenuamente, talvolta, la vita comunitaria nell’esperienza vincenziana viene interpretata in chiave semplicemente funzionale, ossia come mezzo o come necessità organizzativa per realizzare al meglio la missione. Negli scritti di san Vincenzo, però, non c’è traccia di questa dottrina. Egli piuttosto pensa e vive la comunità all’interno della concezione misterica della Chiesa. A conferma di ciò, le due immagini maggiormente richiamate nei suoi scritti sono la vivace esperienza comunitaria dei primi cristiani e il concetto paolino di Corpo mistico, che sono l’attuazione del mandato di Cristo perché i credenti in Lui siano “una cosa sola”. Fratelli, dobbiamo darci a Dio per avere tra noi la santa unione che ci dia un medesimo spirito, un medesimo volere e non volere, un medesimo modo di comportarci. Dobbiamo domandare a Dio che ci conceda, come ai primi cristiani, un cuor solo e un’anima sola. Facci la grazia, Signore, di non avere due cuori e due anime, ma un solo cuore e una sola anima che informino e uniformino tutta la Compagnia. Togli i particolarismi dai nostri cuori e dalle nostre anime, che ci allontanano dall’unità. Elimina ogni attività, che non si accorda con l’agire comune. Fa’ che d’ora innanzi abbiamo tutti un solo cuore, che sia il principio della nostra vita, ed un’anima sola, che ci vivifichi nella carità, in virtù di quella forza unitiva e divina che forma la comunione dei santi. Egli immagina la vita dei missionari caratterizzata dalla familiarità derivante non dal carattere dei singoli o dalla sensibilità umana, ma scaturente dalla forza unitiva di Dio che realizza una comunione fraterna. Grazie a questa unità soprannaturale, esperimentata nella carità del vivere come amici, si si viene reciprocamente invogliati ad amare la medesima vocazione di andare tra i poveri a raccontare il Vangelo di Gesù. Noi tutti abbiamo portato nella Compagnia la risoluzione di vivere e morire in essa. Abbiamo messo a disposizione tutto quello che siamo, il corpo, l’anima, la volontà, la capacità, l’ingegnosità e quant’altro. Perché? Per fare quello che Gesù Cristo fece, per salvare il mondo. E come? Mediante questo legame che è tra noi e l’offerta di noi stessi di vivere e di morire in questa Compagnia, destinandovi tutto quello che siamo e quello che facciamo. Da ciò proviene che questa comunione tra i missionari rende comuni tutti i profitti, perché tutti prendono parte alla riuscita, dimodoché i preti non ottengono le conversioni da soli, ma i fratelli [coadiutori], secondo la regola, vi concorrono mediante le loro preghiere, i loro servizi, le loro lacrime, le loro mortificazioni, il loro buon esempio. Un organista non suona da solo, ma è aiutato da un uomo che aziona i mantici; questi, effettivamente, non suona: è il maestro che tocca i tasti, eppure alzando i mantici, contribuisce all’armonia del suono, e senza di lui, l’altro avrebbe un bel muovere le dita sui tasti, non servirebbe a nulla. San Vincenzo ha in mente dunque una comunità fortemente unita al suo interno, come corpo costruito non solo sull’unità dello spirito, ma anche sull’uniformità esteriore. E tuttavia fra le due, l’unità dello spirito e l’uniformità esteriore, vi è una gerarchia, nel senso che la prima comanda la seconda, e che la seconda è un mezzo per favorire la prima. Nella dissoluzione di questa dialettica, la comunità diventa formale e perde l’elasticità propria di una realtà vivente. E di fatto l’idea di uniformità, nella storia della Congregazione vincenziana, ad un certo punto è diventata uno schema vuoto. Una rilettura dell’uniformità comunitaria esige la ripresa della dialettica che, nel pensieo originario di san Vincenzo, unisce l’uniformità esteriore all’unità dello spirito, attraverso la vivacità spirituale di una comunità che vive una fraternità missionaria. Ciò può accadere là dove avviene una conversione della persona. Non prima di tutto un cambiamento morale, ma una trasformazione dell’autocoscienza di sé secondo il vibrare del carisma delle origini che faceva sentire i missionari appartenenti, per la vita e per la morte, ad un movimento di vita e li rendeva familiari gli uni agli altri. E’ l’immagine di una persona immersa in una “relazione di carità” tra fratelli, la quale a sua volta tende ad allargarsi missionariamente verso coloro che si incontrano. Il motivo è che l’annuncio affidato ai missionari non è propriamente altro che la testimonianza evangelica dell’amore di Dio per l’uomo, reso evidente nella dedizione fino alla morte in croce di Gesù. Nostro Signore con le sue massime ha inteso renderci perfetti nell’unità di spirito e nell’unione della gioia e della tristezza. Il suo desiderio è che partecipiamo ai sentimenti gli uni degli altri. … La pratica dei primi cristiani era di visitarsi l’un l’altro e consolarsi a vicenda… Originariamente questi gesti erano atti di carità, e il guaio è che sono stati staccati dalla loro sorgente. Comunemente, per il modo con cui ora si compiono, sono vissuti male, perché si fanno per vanità, per finzione, per interesse, per affetto naturale, e non per l’unità di spirito e di sentimento che il Figlio di Dio è venuto a stabilire nella sua Chiesa. Questa unità comporta che i credenti, avendo un medesimo spirito in Gesù Cristo, come sue membra, siano lieti o tristi della gioia o della tristezza dei loro fratelli. Per conseguenza, dobbiamo considerare le vicende altrui come nostre. Nel pensare la comunità, però, san Vincenzo non è idealista. Nel suo parlare vi è sempre una venatura di sano realismo, che talvolta sfiora il pessimismo. Non sempre vede la perfezione dell’amore serpeggiare tra i suoi compagni, e allora non cessa di invogliare ed esortare all’unità. Egli sa che la carità comunitaria è come un terreno che va coltivato, poiché le erbe dell’orgoglio e della pigrizia, o la tendenza alla vanità e alla comoda sistemazione, crescono da sé. E allora l’essere presenti nel mondo come annunciatori dell’amore di Dio esige che il “pugno meschino di uomini”, che è la Compagnia della Missione, cresca nella coscienza di appartenere ad un unico corpo nella carità per lasciarla traparire tra il povero popolo. Mi rendete ricolmo di gioia, dice san Paolo, quando, conservando la carità, avete un medesimo cuore e i medesimi sentimenti. E con la raccomandazione ai credenti di non avere che un cuore solo e un’anima sola nella pratica della religione – credentium erat cor unum et anima una (At 4, 32) -, insisteva che avessero la medesima fede e le medesime pratiche. Idem sentientes (Fil 2, 2), egli dice: fate quello che potete per avere i medesimi affetti, per giudicare la realtà allo stesso modo, per essere concordi, per non altercare mai; se uno esprime il proprio parere, gli altri l’accettino e l’approvino stimandolo migliore del proprio. La virtù vuole così e, se vi comporterete in questo modo, fratelli, tutti vedranno che la possedete. In un altro passo si dice: Unanimes collaborantes (Fil 1, 27): lavorate insieme tutti con lo stesso animo. Non dobbiamo essere uniti soltanto nei sentimenti interni, ma anche nel compimento dei nostri impegni e delle opere esterne; e come i cristiani devono cooperare in tutto ciò che concerne il cristianesimo, anche noi dobbiamo collaborare negli impegni della Missione ed esservi conformi secondo le norme e nel modo di eseguirli. Il medesimo modo di sentire, che san Vincenzo ricava dal pensiero di san Paolo e che vivamente raccomanda ai missionari, non è intimismo, né sostegno psicologico alla loro fragilità emotiva: esso piuttosto nasce dalla nuova legge della vita che Cristo ha inaugurato riunendo attorno a sé i discepoli, e cioè la legge della fraternità in Lui, che rende capaci di cura dell’uno verso l’altro così da “portare i pesi gli uni degli altri” (Gal.6, 2), alla “maniera di cari amici”. E ciò implica una delicatezza nei rapporti fatta di rispetto, di attenzione, di riserbo ed anche di sopportazione reciproca. Nella conoscenza dei tanti caratteri degli uomini che san Vincenzo ha visto sfilare davanti ai suoi occhi, si è fatto l’idea che è impossibile stabilire una coralità armoniosa nella vita comune se non vi è una sopportazione reciproca. Essa è un aspetto della concretezza vincenziana. Non bastano gli alti ideali per praticare la carità, occorre anche abbassarsi al livello delle debolezze di ognuno e accoglierle senza scandalo, accettandole come parte del limite umano. Anche questo è un esito della legge dell’Incarnazione che ha guidato l’esistenza di Gesu e che san Vincenzo ha meditato a fondo, interpretandone con efficacia il profilo pratico. Chi volesse vivere in una comunità tralasciando la reciproca sopportazione e la carità, sarebbe tiranneggiato dagli umori e dalle reazioni degli altri quando si discostano dalle proprie, come un’imbarcazione senz’àncora e senza timone, che naviga tra gli scogli in balìa delle onde e dei venti, che la sballottano qua e là fino a fracassarla. Che facciamo sopportandoci? Pratichiamo l’alter alterius onera portate. Che farete, quando sopporterete i vostri fratelli? Adempirete la legge di Gesù Cristo. Diciamogli tutti insieme: Signore, ormai non voglio riconoscere che i miei difetti. Fa’ che, fin d’ora, illuminato dallo splendore del tuo esempio, io porti tutti gli uomini nel mio cuore e li sopporti con la tua grazia. Fammi questo dono e infiammami del tuo amore! Infine l’unità realizzata nella comunità diventa principio di fecondità nella missione, poiché il cuore del cristianesimo è la comunicazione dell’amore di Dio attraverso la carità vissuta tra i fratelli. L’efficacia missionaria dipende dalla fraternità vissuta dai missionari. Essa però, a scanso di equivoci, non va considerata semplicemente come l’esito dell’impegno umano di tenere insieme le diversità di caratteri in una pur lodevole concordia, ma come l’esperienza vissuta di una realtà soprannaturale accolta e fatta propria. Le due forme di unità, esternamente, possono apparire uguali, ma nel loro tessuto interiore sono assai diverse. Ed è il tempo che ne svela la diversità. L’unità che rende feconda la missione è l’unità sigillata dal sangue di Cristo, dice san Vincenzo: Siate uniti e Dio vi benedirà. Ma siatelo per mezzo della carità di Gesù Cristo, perché ogni altra unione, non realizzata col sangue del divino Salvatore, non riesce a resistere. Dunque, è in Gesù Cristo, per mezzo di Gesù Cristo e in vista di Gesù Cristo, che dovete rimanere uniti tra voi. Lo spirito di Gesù Cristo è spirito di unione e di pace. Come potreste attirare le anime a Gesù Cristo se non foste uniti tra voi e con Lui stesso? Non sarebbe possibile. Dunque, abbiate un medesimo sentimento e una medesima volontà, altrimenti accadrebbe come a dei cavalli che, attaccati al medesimo carro, tirassero in direzioni opposte: spezzerebbero e rovinerebbero tutto. Dio ci chiama a lavorare nella sua vigna. Andateci dunque, avendo in Lui un medesimo cuore e una medesima intenzione, e con questo mezzo raccoglierete frutti.