San Vincenzo maestro di comunicazione

Il comunicare per san Vincenzo era funzionale a rendere trasparente l’incontro con il messaggio evangelico, esattamente al contrario della maggior parte degli ecclesiastici del suo tempo, che attraverso lo sfoggio dell’oratoria tendevano a perdersi nelle parole fine a se stesse. Al linguaggio dotto e astratto san Vincenzo oppose il piccolo metodo, che introduceva un registro assai diverso nel modo di ragionare e di parlare del suo tempo. Era un modo di parlare semplice e piano che, senza essere banale, apriva ad un rapporto immediato con l’interlocutore. La sua parola poi, per una personale dote nativa, si apriva alla sensibilità di chi ascoltava, contrapponendosi alla piega del pensiero razionalista che stava nascendo proprio nella sua epoca e che avrebbe contagiato per lungo tempo la modernità incipiente. Aveva quasi il terrore di parole che favorissero una qualche vanità, e non servissero per lo scopo per cui dovevano essere dette, cioè per annunciare la verità della fede. Diceva: E’ pervertire l’uso della parola di Dio, servendosene per apparire, per farsi stimare, affinché si dica: “Ecco un uomo eloquente, di grande capacità! Ha genio ed erudizione!”. Ahimè! Non incorreremmo nelle maledizioni rivolte ai falsi profeti? Dio, alla fine, non ci abbandonerà, per aver abusato delle cose più sante, pur di accontentare un poco la nostra vanità, avendo adoperato il mezzo più efficace di convertire le anime per appagare la nostra ambizione? Sosteneva che la parola proclamata dovesse coincidere con la persona che la pronunciava, poiché essa diventa efficace se l’uditore ne esperimenta l’autenticità in chi la pronuncia. Se le loro parole [quelle dei missionari] portano la grazia, è perché [chi le pronuncia] se le applica, le ascolta e ne è commosso per primo; e con tal mezzo riesce ad infiammare gli altri. Per questo, quando parlava, san Vincenzo coinvolgeva in un’atmosfera dialogica, familiare e calorosa, calamitando il desiderio di coinvolgersi nelle parole ascoltate e stimolando la voglia di tradurle nella vita. Ciò è più chiaro nelle Conferenze alle Figlie della Carità, che strutturalmente sono basate sull’interrogazione delle suore; ma il clima comunitario di coinvolgimento relazionale è identico nelle Conferenze ai Preti della Missione. La condizione che otteneva col suo parlare “familiare e alla buona” – come diceva – era un clima di cordialità. Non per questo era molle, ma sapeva dare al discorso la forza della correzione, come quando sgridò in pubblica adunanza un confratello anziano che, per pigrizia, si era rifiutato di fare la ripetizione della meditazione, o quando fustigò il vizio di un povero fratello coadiutore che si ubriacava. In simili situazioni si mostrava forte, usava parole che, al giorno d’oggi, sarebbero sembrate lesive della dignità della persona, ma non esitava per la sua spontanea sensibilità ad immedesimarsi con quel difetto o vizio, accusando se stesso di essere peggiore di colui che sgridava. E così faceva pari. Ed il confratello preso di mira non si sentiva né accusato né umiliato, ma corretto. Le Conferenze sono la testimonianza che non rese mai passivi i suoi ascoltatori: le pause, i silenzi, le parole infervorate, le inflessioni, il ricorso agli esempi, il riferimento alle esperienze dei missionari stessi, le invocazioni, le suppliche, le richieste di perdono (perché riconosceva di non essere egli stesso secondo le parole che pronunciava), i discorsi familiari intonati alla semplicità evangelica, coinvolgevano e attraevano non a sé, ma alla verità di Cristo, verso cui con parole suadenti tentava di condurre. Il metodo esigeva flessibilità e capacità di adattamento. E, benché san Vincenzo fosse metodico, tuttavia lasciava spazio all’improvvisazione, per cui da una parola ne scaturiva un’altra attraverso la reazione di coloro che l’ascoltavano. Di quest’arte di adattarsi agli uditori un giorno ne diede la formula: “E’ una virtù che … ci fa osservare un certo ordine e uno stile accomodante, alla portata di tutti ed utile per il maggior profitto degli uditori”. A. Redier nella sua interessante biografia La vraie vie de saint Vincent de Paul descrive ottimamente questo stile di san Vincenzo: “Entrava nei sentimenti dei suoi ascoltatori, li sfiorava con delicatezza, con il conveniente distacco. Da gran signore si mostrava condiscendente verso l’affettazione, e persino verso la civetteria, ma per blandire quelli che l’ascoltavano e sedurli, e così averli in pugno. Questa era l’arte della sua eloquenza”. Un esempio di quest’arte la troviamo in un testo in cui redarguì certi missionari che si erano lamentati del vitto di san Lazzaro; oppure quando rimproverò alcuni che si erano presa la libertà di andare a passeggiare a tutte le ore nel recinto di san Lazzaro invece che accontentarsi del giardino durante il tempo della ricreazione comune. Non siamo abbastanza contenti di usare il giardino? Non è abbastanza grande, in lungo e in largo? Ve ne sono pochi a Parigi grandi come il nostro. Andate in tutte le case, dai mercanti, dai finanzieri, dai magistrati, e non li vedrete mai nel loro giardino. Sono assidui quasi tutti a lavorare notte e giorno: dopo aver passato il mattino in tribunale, appena pranzato, riguardano gli incartamenti per riportarli nel pomeriggio. E noi non ci accontentiamo di vasti giardini, ci occorre il recinto. Anzi vi è anche chi non si accontenta del recinto. Vorremmo condurre una vita… non so come dirlo… lautior? Se si potesse tradurre nella nostra lingua questa parola latina, dovremmo dire più comoda… ma non esprime abbastanza bene; si potrebbe forse meglio dire più voluttuosa, più dilettevole, più gaudente, a proprio piacimento, più larga rispetto a quella delle persone del mondo. E non crederete mica che gli ordinandi che, dalle loro finestre, ci vedono passeggiare a tutte le ore nel recinto e nei giardini, qua e là, mischiati con i poveri sofferenti che vi vengono condotti a prendere un po’ d’aria e gli operai che vi lavorano, non dicano tra sé: Ecco delle persone che si godono la vita e non hanno nulla da fare! San Vincenzo parlava nel modo più semplice e chiaro per farsi capire da tutti. E questa era la preoccupazione del piccolo metodo che, come si è detto, san Vincenzo aveva scelto come caposaldo del suo modo di essere e di quello della sua comunità: Il piccolo metodo ci fa andare alla buona nei nostri discorsi, il più semplicemente possibile, familiarmente, in modo che il più meschino dei nostri uditori possa capirci, senza tuttavia servirci di un linguaggio scorretto o volgare, ma servendoci del modo di parlare in uso, con chiarezza, limpidezza, semplicità, senza affettazione. E così, non ricerca altro che il bene e il vantaggio degli uditori; stimola, istruisce, riscalda, distoglie facilmente dal vizio, induce all’amore della virtù e produce i migliori effetti dovunque è ben impiegato. Il modo con cui san Vincenzo sviluppava un argomento tendeva ad incidere sull’affetto e sulla volontà più che sull’intelligenza degli ascoltatori. Per questo metteva tra i vizi principali del missionario l’insensibilità nelle cose di Dio. E si accalorava nel distogliere i suoi dal fare le cose tanto per farle (“non basta fare le cose per vederle fatte, bisogna farle bene!”, diceva), poiché l’abitudine nelle cose dello spirito è il tarlo che uccide la vita spirituale. Tutto ciò nasceva da una grande libertà di spirito, appresa in un lento cammino spirituale che lo aveva portato a distaccarsi da se stesso. Da tale distacco aveva acquisito quell’ironia sottile a cui si lasciava andare in certi momenti delle sue conferenze quando doveva correggere quelli che egli chiamava “gli spiriti malfatti”. In sintesi le Conferenze ci mostrano san Vincenzo esperto comunicatore ed abile nel relazionarsi con i suoi confratelli per condurli ad avvicinarsi al cuore del Vangelo.