Suor Camilla Terzoli

Chi fino agli anni ’60 si fosse sentito svegliare dal campanone della cattedrale invitante alla prima Messa, mai avrebbe immaginato chi fosse il vigoroso companaro. Era una Figlia della Carità sulla soglia degli ottant’anni, che tutti nelle viuzze del Castello, dalla torre San Pancrazio a quella dell’Elefante, conoscevano. Benché impacciata dall’età, era per lei un punto d’onore sostituire i chierichetti a quell’ora, per poi ritornare alla sua Piccola Casa San Vincenzo in via Corte d’Appello, ove l’attendevano le sue vecchiette.

Camilla Terzoli nacque a Bosisio, nella verde Brianza, il 16 maggio 1883. Appena ventenne arrivò in Sardegna e vi rimase per ben 60 anni. La casa Santa Lucia (o Asilo Umberto I e Margherita) e il Conservatorio furono le prime tappe del suo servizio di carità agli inizi del Novecento, poi la sua porzione di attività fu la Piccola Casa San Vincenzo, con il solo intervallo della prima guerra mondiale quando andò volontaria all’Ambulanza di Mestre per curare i soldati feriti dopo la disfatta di Caporetto e altri pochi mesi all’Ospedale Marino di Alghero. I bambini erano i suoi migliori amici, e non era necessario che facesse l’asilo per averne a quantità. Li attraeva facendoli giocare e raccontando loro fiabe, ma soprattutto facendoli cantare. Il manoscritto ingiallito, denso di 140 pagine di inni sacri trascritti di suo pugno e consunto dall’uso, lo dimostra. Li stanava dalle case e se li portava a “Santa Lucia” o al “San Vincenzo” per insegnare il catechismo. In un anno ne conduceva in porto anche tre corsi. Ora erano in venti, ora in trenta. Molti mesi prima della prima comunione era tutta in faccende: prima per raccogliere offerte dai ricchi, poi per confezionare vestiti per la prima comunione o cresima. E i piccoli amici, la settimana prima della grande data, la passavano nella Piccola Casa, pregando, cantando, scandendo una per una le risposte del catechismo. Alla sua scuola catechistica passavano anche molti giovanotti adulti che si vergognavano di dover ancora ricevere i sacramenti della cresima e della prima comunione prima di potersi sposare. Con loro cambiava sistema. Li istruiva uno per uno, con la discrezione che dà soccorso senza umiliare. Non vi era funzione in duomo alla quale non fosse presente, anche se si trattava di un matrimonio celebrato in tutta segretezza, perché era lei che aveva persuaso quella coppia, da tutti creduta in regola, a compiere il passo decisivo, ed ora completava l’opera prestandosi a far da testimone perché nessuno sapesse.

Le sue passeggiate approdavano sempre a case di poveri. Là era la sua gente. A loro portava il suo soccorso: pane, minestra, qualche indumento. E poi si sedeva, carezzava i piccini, parlava dell’anima, di Dio, del Paradiso. E i segreti affioravano: dissensi familiari, consuetudini disordinate, risentimenti e inimicizie col vicinato. Non fuggiva per questo inorridita, anzi tornava all’assalto, con insistenza, finché la pace non era raggiunta e l’unione coniugale ristabilita. Se, entrando in un sottano, trovava un vecchio, una vecchia, trascurati da tutti, il suo volto si illuminava come alla presenza di Cristo. Si dava d’attorno per pulirlo, spazzava la casa, rassettava il letto, dava affetto. Trovava mille cose da dire in un colloquio cordiale che solo lei sapeva animare. Con loro dimenticava tutto il resto. E descriveva il luogo dove sarebbero stati bene, la sua Piccola Casa, e li esortava ad andarvi. Anche se l’edificio era tetro e spoglio, lei aveva fatto sì che i suoi vecchi la vedessero come una reggia, poiché era riscaldata dal suo ottimismo e buon umore. Ne era divenuta superiora il 28 novembre 1933. Nella povertà, e possiamo dire senza timore di smentita, la più nera, accompagnava maternamente i sessanta anziani tra vecchi e vecchie a sentirsi di casa ed ancora utili.

Quando nel 1943 i bombardamenti cominciarono a devastare le città italiane, fu giocoforza per suor Camilla caricare sul treno i suoi vecchi e andare a ripararsi. Arrivò alle due di notte a Sorgono ed invase la sede della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), nonostante le proteste del segretario del Fascio. Minacciata di sfratto, se necessario con l’intervento della forza pubblica, lei non si arrese. Corse a Nuoro dal prefetto e fu rassicurata. E dopo un anno di esilio ottenne di poter ritornare prima, poiché non poteva reggere allo strazio di veder le sue vecchiette morire una dopo l’altra sotto i rigori del freddo della montagna: in 14 mesi ne aveva perduto 22. Nella Piccola Casa, che il superiore generale della Missione, padre Verdier, visitandola, aveva definito “la più vincenziana del mondo perché la più povera” ricominciava la vita di paradiso. Valendosi della propria autorità si era riservata l’esclusiva di curare le vecchie. Il cibo, gli indumenti, il letto erano attentamente controllati attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali. Nel pomeriggio dopo la siesta, tempo in cui lei pregava in cappella, si intratteneva da un letto all’altro, si soffermava accanto a chi stava male, raccattava un oggetto caduto, sferruzzava all’uncinetto (…) e intanto pregava e faceva pregare con il santo Rosario. La sua voce non diventava mai rauca. E si poteva notare quando dai bassi livelli della re­ citazione, passava ai più alti del canto. Gli inni, i più belli e più rari, poiché aggiornava sempre il suo repertorio, erano passati in rassegna. Suor Camilla era sempre pronta a raccogliere l’ultimo respiro dei suoi ospiti. In trent’anni furono molti i decessi, poiché almeno un migliaio di ricoverati figurano negli elenchi della Piccola Casa. Solo una persona durante la sua lunga carriera è morta senza averla avuta vicina.

Disposta a qualsiasi sacrificio per il bene comune, dai bambini dell’asilo e delle orfanelle passò ai pesanti lavori della cucina. Fu lei stessa a chiedere questo penoso incarico, e lo mantenne per 10 anni, sgravandone così una consorella ammalata. Rimase per trent’anni suor servente della Piccola Casa e fu sempre di esempio e di incitamento per la comunità. La pietà era il suo quotidiano alimento. Animava la conversazione nelle ricreazioni ed era di una giovialità contagiosa. Evitava di dare avvisi e rimproveri anche se meritati: le bastava uno sguardo, un sorriso. E quando da una bocca mal controllata usciva qualcosa contro di lei, taceva improvvisamente e chinava umilmente la testa, considerandosi colpevole. E finché non intervenne una frattura ossea patologica non si fermò nel servire i poveri, nel cercare di fare i loro affari, inoltrando le domande di pensione, andando a sollecitarle e a ritirarle. Morì il 12 febbraio 1963 da vera serva dei poveri.