Suor Ines Lumpp

La vicenda di suor Ines Lumpp, pur essendo fra le più tristi della storia delle Figlie della Carità della Sardegna, merita di essere ricordata non solo per i suoi contorni tragici, ma anche per la testimonianza di carità in essa espressa. Il mattino del 6 aprile 1933 suor Lumpp, superiora dell’ospizio di San Pietro in Silki, fu ferita da un ricoverato violento e il giorno seguente morì all’età di 66 anni, essendo nata a Collegno, in provincia di Torino, il 2 gennaio 1867. Suor Lumpp, prima di morire, volle perdonare il suo assassino. In tal modo testimoniò di agire secondo l’amore evangelico, per cui il suo morire fu un autentico martirio della carità. Il giudice relatore della sentenza, per ben due volte, mentre stendeva, nell’arido stile giuridico, il documento di condanna dell’assassino, si è mostrato commosso nell’inserire la nobiltà del gesto di perdono di suor Lumpp. La celerità con cui venne svolto il processo di condanna (aprile-novembre dello stesso anno) lascia capire la commozione con cui il fatto venne vissuto dalla stessa magistratura.

Dal verbale della sentenza di giudizio traiamo le informazioni circa il fatto. Giuseppe Cubeddu, ospite della casa di riposo da dieci anni, esercitava il mestiere di falegname. La mattina del 6 aprile, verso le ore 9, suor Angela incaricò un ricoverato di “chiedere al Cubeddu di incollare una cornice che si era rotta, ma all’ambasciata, il Cubeddu oppose un reciso rifiuto pronunciando anche parole sconce all’indirizzo della suora… e lo stesso rifiuto oppose anche alla stessa suora, quando avvertita del diniego si recò personalmente a insistere nella sua richiesta e colle buone maniere gli fece presente che egli doveva ubbidire”. Persistendo il Cubeddu nel suo reciso rifiuto, la suora informò di ciò la superiora. “Questa si recò immediatamente nel laboratorio del Cubeddu per chiedergli ragione del suo rifiuto, ma il Cubeddu, dopo averla investita con brutti epiteti, brandì uno scalpello che aveva sul banco e si avventò contro la superiora colpendola prima al petto e poi alla spalla mentre essa cercava di allontanarsi inseguita da lui. La povera superiora, così colpita e sempre inseguita dal Cubeddu armato di quello scalpello, riuscì ad arrivare al refettorio, ove cadde svenuta e dove ricevette i primi soccorsi. Ma all’indomani in conseguenza delle lesioni riportate, che avevano interessato la pleure, il polmone ed il cuore, dovette soccombere, non senza prima dichiarare di concedere il suo perdono al Cubeddu. Questi, dopo aver compiuto l’atroce delitto e dopo essere stato allontanato dal refettorio, si vantò di quanto aveva fatto con quanti incontrava e in particolare colla portinaia e col ricoverato che lo aveva interpellato, rammaricandosi di non averle torto prima il collo e minacciando di fare una strage con un fucile che egli teneva in laboratorio e che impugnò non appena tornato nel laboratorio. Lo stesso ricoverato, impressionato per tale contegno per paura che effettivamente il Cubeddu avesse qualche altra cattiva intenzione, ritenne prudente di far scaricare dallo stesso Cubeddu detto fucile, ciò che di fatto fu eseguito. Il giudice poi sottolineava che le motivazioni addotte dal Cubeddu, ossia che “aveva covato rancore contro le suore, perché gli era stato cambiato un materasso e gli avevano tolta l’incombenza di manovrare il motore dell’acqua e di riparare i fili elettrici”, erano futili; e che invece la ragione andava ricercata “nel carattere violento dello stesso, in quanto risultava che nel 1921 in occasione delle nozze della figlia egli ferì e infierì contro la figlia stessa, il genero e altri due commensali, per i quali fu giudicato e condannato”. Il giudice poi argomentava che l’aggressione risultava aggravata “in quanto commessa contro colei che lo aveva sempre trattato con uno speciale riguardo ed era di animo così nobile e misericordioso da dichiarare di concedergli il suo perdono proprio nell’istante in cui stava per spirare”.

I padri francescani del convento annesso al santuario, padre Pierbattista Nieddu, guardiano del convento, padre Benedetto De Muro, maestro di formazione e gli altri religiosi, furono sempre concordi nel sostenere che la morte di suor Lumpp dovesse essere considerata un martirio dell’amore evangelico, poiché era avvenuto in un contesto in cui la vita di suor Lumpp era tutta protesa al servizio di carità verso i poveri del ricovero. Le cronache cittadine ricordarono con grande emozione l’accaduto.