La testimonianza di Suor Raffaella Colombo vincenziana che ha lavorato per cinquant’anni in città.
Nella vita di suor Giuseppina c’è l’ospedale San Francesco di Nuoro.

La vita di suor Raffaella Colombo (nata a Merate Brianza nel 1899 è morta a Nuoro nel 1985), nota in città come suor Giuseppina, riassume la storia dell’ospedale San Francesco. Per l’Ortobene venne intervistata nel 1983. Riproponiamo il testo.
Non ha rimpianti, pensa di avere speso bene la sua vita, vuole solo morire in grazia di Dio. Lo dice sorridendo senza esitazioni. Parla poco della sua opera: preferisce ricordare il bene compiuto dagli altri. Considera le sue consorelle, suor Luisa e suor Vincenza in modo particolare, di molto superiori a lei. Suor Giuseppina è fatta così. Per cinquant’anni ha lavorato all’ospedale, suora vincenziana dal 1923, una delle prime suore diplomate in Italia, venne a Nuoro il 2 febbraio del 1933, dopo aver frequentato i corsi a Torino. La sua vita compendia la storia dell’Ospedale. Nei suoi ricordi si ricostruisce la cronaca di una istituzione.

Come mai ha scelto di fare la suora…
Per servire il Signore con tutto il cuore. Per amarlo in Carità e Povertà. Per vivere di lui. E incontrarlo nelle persone che soffrono. Sin da bambina desideravo Assistere i malati. Curarli nel corpo ma anche confortarli e aiutarli nello spirito. Loro sono il volto di Cristo sofferente.
Se potesse tornare indietro si rifarebbe suora?
Non esiterei un attimo. Lo rifarei cento volte. Sono contenta di come ho speso la vita. Ho servito il Signore con letizia e non ho rimpianti. Anzi ne ho uno: di non avere più la salute e le forze di un tempo per continuare a lavorare.
Non rimpiange altro?
No. Certo, il Signore non lo amiamo mai a sufficienza. Amare lui non basta mai. Però gli ho voluto bene davvero…
E lei si è sentita amata?
Infinitamente: da Dio e dagli uomini. Soprattutto dai malati.
Ne ricorda qualcuno in particolare?
Tutti. Soprattutto i più sofferenti. Un caso particolare che mi ricordo fu una donna di Dorgali operata di tracheotomia. Bisognava farla parlare altrimenti avrebbe perso l’uso della voce, ed era necessario tenerla sveglia. Stetti due giorni a parlare con lei, finché non fu fuori pericolo. Mi presi così a cuore quella malata che per poco non diventavano gelose le altre…
La sofferenza e quindi la povertà. Cos’è per lei questa virtù?
La povertà è la ricchezza di Dio. Io sono ricca perché ho visto tanti malati sorridere. Mi creda non c’è cosa più bella. Vedere un malato contento è una cosa che fa rinascere.
C’è qualcosa che le ha fatto particolarmente pena?
Si. Fu quando vennero a prendermi un paziente che poi doveva essere fucilato. Io lo avevo curato per quarantacinque giorni. Era un latitante; si chiamava Antonio Pintori. Si trovava in ospedale per una frattura alla gamba.
E perché soffri tanto?
Perché anche lui era una creatura di Dio. Era costato il sangue di Cristo. Cosa vuole che faccia soffrire più di questo: del vedere un uomo ucciso da altri uomini sapendo che Cristo è morto per tutti. Pintori, prima di essere portato a Prato Sardo per la fucilazione, pregava e si confessò.
Dell’ospedale di allora cosa ricorda?
Quando venni io c’erano 13 malati. Le strutture erano inesistenti. Ricordo che per riscaldare i malati facevamo il fuoco in cortile e poi si portava nelle corsie un po’ di brace. I problemi più grossi gli affrontavamo con spirito di creatività e fiducia. Spesso per dare da mangiare ai malati andavamo a raccogliere verdure, funghi e ortaggi. Raccoglievamo di tutto, andando in campagna.
Chi erano le sue compagne di avventura?
Ricordo suor Luisa e soprattutto suor Caterina Mangoni. Quella lì non era mai stanca. Aveva uno spirito di sacrificio che non ho io. Era addetta alla cucina. Morì al suo posto di lavoro, in cucina, dopo aver tagliato col coltello 320 fettine per i malati. Suor Caterina ogni tanto bisticcia va con San Giuseppe. Quando non c’era più niente da dare da mangiare ai malati lo rimproverava. Una volta, per punizione, giro verso il muro il quadro che raffigurava il santo. Era una donna eccezionale. Più donava se stessa e più desiderava spendersi maggiormente.
Suor Giuseppina, c’è qualche desiderio inappagato che vorrebbe ancora soddisfare?
No, per me non ho cose da chiedere. Vorrei che i malati stessero bene. Che le mie sorelle siano felici e generose nel servizio.
Per che cosa vorrebbe essere ricordata dai nuoresi?
Io voglio essere ricordata da Dio. Chiedo solo che si preghi per me affinché faccia una buona morte.

Una storia sommersa eppure è molto intensa
Ci sono vite esemplari che scopriamo casualmente e tardi. C’è un’opera di bene infinita su cui facciamo fatica ad aprire gli occhi. Nelle nostre memorie non trova posto il ricordo di coloro che ci hanno messo in condizioni di vivere oggi con relativo benessere. E invece è necessario scoprire quella storia. Per farne tesoro, ma anche per non deformarla. L’opera delle suore vincenziane appartiene a questo mondo sommerso. Come silenziosa, in genere, è l’opera della Chiesa in campo sociale. Eppure in città, il primo orfanotrofio, quando ancora l’infanzia abbandonata era una regola, è stato messo su da un sacerdote. E il primo asilo è stato istituito dalle suore. E i primi studentati o collegi erano opera di religiosi. Un frutto di pace viene seminato da chi fa opere di pace, promette il profeta Isaia. E forse qui sta la vera ricompensa che spetta a queste persone. Se ne parliamo non è per vanagloria. È che senza di loro noi oggi non saremmo così: la nostra città è andata avanti anche grazie all’umile contributo di queste suore, sacerdoti, laici profondamente attenti ai bisogni dell’uomo. Riscoprire le nostre radici per essere più attivi, imparare da coloro che ci hanno testimoniato un valore e spiegato il metodo per realizzarlo. Andare alla loro scuola per capirne l’ansia.

Le tappe dimenticate dell’avventura ospedaliera
L’ospedale San Francesco ha avuto origine nel 1878 per iniziativa di alcuni benefattori.
Tra essi fanno ricordarti l’avvocato Corbu e i Coniugi Sulis.
La mancanza di strutture e di personale sanitario ne rendeva difficile il decollo. E così il locale, prima della guerra 1915–1918, veniva sfruttato per le visite di Leva. Durante la guerra venne usato come poliambulatorio militare. Il 10 gennaio 1927, quando Nuoro divenne Provincia, il Prefetto fece funzionare un servizio di Pronto Soccorso, assumendo un medico di guardia fisso. La situazione migliorò quando nel 1928 venne in città Benito Mussolini, che, viste le precarie strutture sanitarie, stanziò la somma di lire 500.000. Con quei soldi fu realizzato un piano terra e un piano rialzato, per una capienza di 50 posti letto. La funzionalità di questa struttura fu definitivamente avviata nel 1933 con la denominazione di Ospedale Civile San Francesco. Firmatari dell’Atto di Costituzione furono i canonici Daddi e Sale. Il 2 febbraio di quell’anno arrivarono in città tre suore vincenziane: La superiora Suor Maria Allegri, suor Caterina Mangoni e suor Raffaella Colombo (suor Giuseppina). Si dovettero rimboccare le maniche per affrontare difficoltà da brivido. In tre stanzucce erano presenti 13 ricoverati. Le cucine erano all’aperto. L’assistenza veniva assicurata da due medici: i dottori Lostia e Rossi. Due o tre volte la settimana veniva da Sassari il Professor Delitala, valente Chirurgo. Il corredo era costituito da 10 lenzuola e sette camicie. Non esisteva l’impianto idrico, elettrico e il riscaldamento. A fornire il corredo provvisorio le Dame della Carità. Suor Giuseppina fece sostituire i fornelli della cucina e installare i termosifoni al posto dei bracieri. L’ospedale lentamente si ampliò: arrivo più personale e più malati. Ai primi due medici si aggiunsero via via, il prof. Francesco Satta, e poi Francesco Gabbas, Domenico Ferracciu, e quindi il prof. Martini e Serafino Manca. Tra il 1940-1945 venne costruito il 2° piano, verso il 1950 il 3° piano. Furono creati reparti di medicina, chirurgia generale, ostetricia e pediatria. Nel periodo tra il 1960-1970 furono allestiti e resi funzionali i reparti di oculistica, urologia, dermatologia, radiologia, otorinolaringoiatra. Nel luglio del 1977 l’Ospedale è stato trasferito nei nuovi locali di Biscollai, costruiti secondo progetto elaborato nel 1960.

Pubblicato su: L’Ortobene il 16 maggio 2021